IL GIARDINO DELLE ROSE NERE CAPITOLO
1
La rosa nera era il fiore più straordinario
del giardino dove un bambino viveva il più bel periodo della
sua vita. Trascorrere l’infanzia in un giardino di rose, gerani,
primule e altri fiori, non è un privilegio di tutti i bambini.
Quando osservava la madre carezzare con tenerezza quei fiori, sorridere
soddisfatta, sussurrare qualche parola quasi potessero sentirla, provava
una gioia e un fascino indescrivibile. Il padre si assentava spesso
per lavoro e in quei momenti aveva l’impressione che la madre
fosse tutta per lui. La guardava con curiosità mentre lavorava
nel giardino che circondava la villa di campagna, dove passavano gran
parte dell’anno, e assaporava il senso di libertà che solo
la spensieratezza può dare. Scorazzava per la campagna circostante;
a volte aiutava il giardiniere che si occupava dei lavori pesanti, a
volte imitava la madre passando in rassegna i fiori che crescevano nelle
aiuole, come fossero soldati pronti alle sue battaglie. La passione
per i fiori aveva originato un piccolo commercio, soprattutto di rose
e innesti insoliti che davano ibridi straordinari. Le dita delicate
della madre si muovevano con sicurezza tra le spine, ma a volte la ferivano
e il bambino preoccupato, guardava la goccia di sangue colorare il suo
anello. Allora lei se lo toglieva e glielo porgeva, il tempo di lavarsi
le mani. Il bambino lo osservava attentamente: c’era un’acquamarina
circondata da piccoli cristalli, che brillavano al sole e che nella
sua immaginazione diventavano diamanti preziosi. Lo metteva controsole
e ammirava i vari colori che sembravano uscire come per magia da quelle
piccole pietre. Aveva contato il numero dei “diamanti”,
erano nove, ne mancava uno, chissà dov’era finito, ma un
giorno lui l’avrebbe trovato. Sull’oro dell’anello,
all’interno, c’era incisa la lettera A e una data che non
era mai riuscito a leggere. Credeva che fosse molto prezioso dal modo
in cui la madre lo guardava e dalle raccomandazioni di stare attento
quando glielo dava. In realtà le pietre erano dei normali cristalli,
ma l’anello era d’oro.
La notorietà di Rosa, era questo il nome della donna, si estendeva
a tutta la provincia e spesso gli aspiranti giardinieri arrivavano da
lontano per chiederle consigli e comprare gli steli che avrebbero fatto
moltiplicare le meraviglie dei fiori nei loro giardini. Sognava di cominciare
un corso di botanica e stava preparando la pubblicità.
Quel bambino ero io, lei, la Rosa tra le rose, era mia madre. Di quel
periodo ricordo poco, soltanto la grande ammirazione che avevo per lei
e la certezza del suo amore. Ho appreso da lei ad ammirare i colori,
le bellezze della natura e la musica. Un altoparlante sotto la grondaia
diffondeva, nei giorni della primavera, le note di un pianoforte e il
pezzo che lei amava di più era “La Gymnopédie No.
1” di Erik Satie.
Rivedo le sue mani sottili, ben curate, mentre si muovevano con la grazia
della danza attorno ai fiori; quando mi carezzavano riuscivano a scacciare
ogni dolore, ogni preoccupazione, ogni paura. I suoi occhi avevano una
luce che neanche il trascorrere del tempo e il grande shock subito sono
riusciti a cancellare dalla mia memoria. Nel giardino c’è
ancora una palma, che allora mi sembrava così alta da toccare
a volte anche le nuvole. E quando queste erano basse, in inverno, le
fronde più alte scomparivano davvero nella nebbiolina di quelle
masse grigie. A volte mia madre si curvava per odorare qualche rosa
appena sbocciata, chiudeva gli occhi e provava un piacere che non capivo
allora; l’avevo imitata molte volte e avevo sentito quell’odore
sottile e delicato, ma non avevo scoperto il piacere che vedevo apparire
nel suo volto quando chiudeva gli occhi per apprezzarlo meglio. Avevo
l’impressione che non fosse l’aria a riempire i suoi polmoni
ma quel profumo misterioso. Non potevo immaginare che quegli istanti
sarebbero finiti così presto, avevo il desiderio di trattenere
il tempo in una bolla magica perché durasse per sempre. Mentre
lei eseguiva i suoi gesti abituali nel giardino, io gustavo quei momenti
rincorrendo il gatto che si nascondeva dietro qualche cespuglio, o battevo
con un ramoscello secco un sasso per farlo volare verso quel piccolo
mascalzone, che non riuscivo a colpire mai. Ho dimenticato quasi tutte
le cose più importanti ma mi vengono in mente dei dettagli banali,
come la volta in cui decisi di incollare alle sue zampe dei gusci di
noce vuoti. Il rumore sui gradini di mattonelle della veranda aveva
fatto accorrere mia madre che, invece di rimproverarmi per la bravata
un po’ crudele, era scoppiata in una risata che l’aveva
fatta diventare ancora più bella e più amica. Passavo
la maggior parte del tempo con lei, sicuro di poterla difendere da qualsiasi
pericolo, ladro o malfattore, che l’avesse minacciata durante
l’assenza di mio padre. Ma non fu così. Il desiderio che
ha condizionato la mia vita origina in un punto lontanissimo di quell’esistenza
idilliaca, lontano non nel tempo ma nei ricordi: il giorno della sua
scomparsa, quello che ho cercato di seppellire nella polvere delle mie
illusorie certezze, sbriciolate come le rocce inermi, confini di mari
tempestosi, a diventare sabbia.
Era il 5 marzo del 2000, la domenica di carnevale. Frequentavo la quinta
elementare e con i coetanei della contrada avevamo deciso il tema per
la sfilata, che si sarebbe svolta nel pomeriggio: “Streghe e maghi”.
Tutto avvenne in modo così inconsueto che non ricordo bene la
sequenza degli avvenimenti. Contento di aver ottenuto il secondo premio
alla sfilata, avevo raggiunto la villa. Il cancello era aperto, non
si vedeva nessuno, mio padre era fuori città per lavoro, il silenzio
faceva paura, non c’era la musica del piano che mia madre amava
ascoltare. Anche il vento, che aveva agitato tutto il giorno le fronde
della palma altissima, sembrava aspettare. Tutto era immobile come in
una vecchia fotografia, dove il colore sbiadito mostra macchie sparse
e dà l’impressione delle cose passate, ormai sfiorite.
Ricordo ancora la sorpresa e il brivido che mi percorse la schiena alla
vista di quel paesaggio immobile; ebbi un presentimento funesto. Perché
mia madre aveva lasciato il cancello aperto? “Mamma”, chiamai.
La mia voce si perse nel silenzio del pomeriggio. Forse era dietro la
casa, dove avevamo il pozzo artesiano e un lavatoio che utilizzava per
pulire gli attrezzi per il giardinaggio e qualche volta per lavare gli
stracci. “Mamma”, chiamai più forte. L’eco
che rispose alla mia chiamata ritornò affievolito, come da un’enorme
distanza. Il mio cuore cominciò a battere velocemente e un’insolita
paura mi fece tremare le gambe. Mi sembrò vedere delle macchie
rosse sulle mattonelle della veranda. Dove era andato a finire il gatto?
Perché quelle impronte non erano state pulite? Erano proprio
le sue impronte ma sembravano petali di rose rosse. Quando capii la
natura di quelle orme mi si rizzarono i capelli. “Mamma”
urlai, “dove sei?” Mi rispose un mormorio, un sospiro impercettibile
quasi, e poi ancora quel dannato silenzio! Mi precipitai verso quei
petali e sul pavimento vidi una macchia di proporzioni gigantesche che
colorò tutti i miei pensieri. Qualcuno ferito aveva perso molto
sangue. Ma non poteva essere mia madre! Oppure… Io non c’ero
stato tutto il giorno e l’avevo lasciata sola e indifesa. Perché
tutte le porte erano aperte? Il quadro con l’attestato del premio
che avevo ricevuto, cadde nella pozza di sangue con un rumore strano,
come quando si getta un oggetto dentro un pozzo e arriva al fondo; un
rumore sordo, un tuono assordante, una porta che sbatte, un libro che
qualcuno chiude con forza, un vetro che si rompe, un respiro affannoso.
Mi sembrò di scorgere la figura di un uomo nello specchio dell’entrata,
ma era forse la mia immaginazione. Notai un viso impaurito e mostruoso,
come quando mio padre mi rimproverava per non avere fatto i compiti.
Chissà perché pensai a lui, doveva essere in una città
a mille chilometri dalla villa! Nella nebbia della mia confusione e
paralizzato dalla paura urlai: “Papà dove sei?”.
Mi colpì un dettaglio della figura riflessa sullo specchio, che
avrei poi ingigantito fino farlo diventare la caratteristica che avrei
cercato in ogni uomo che incontravo: le sopracciglia folte sugli occhi
neri come il carbone, un paio di occhiali e dei baffi come setole nere.
Notai una figura ricurva che correva in mezzo ai cespugli del giardino
verso il retro della casa, poi sparì, anche dalla mia memoria.
Mi diede l’impressione di un diavolo. Più tardi lo trovavo
nei sogni che a volte mi facevano urlare nel bel mezzo della notte.
Dovevo difendere mia madre da quell’uomo! La raggiunsi, mi ritrovai
con un coltello tra le mani; lei restava immobile, distesa sul pavimento.
Attorno c’erano tutte le sue rose rosse… no! era il suo
sangue.
Non so quanto tempo rimasi ad abbracciarla, mi ricordo soltanto che
arrivò mio padre urlando: “Che cosa hai fatto?”.
Poi tutto è sparito nella voragine del passato, coperto da una
spessa polvere che nessun vento avrebbe potuto sollevare, neanche io
stesso. Sparì anche il coltello.
Ci fu un’inchiesta, un processo a carico di ignoti, la ricerca
di un movente, un interrogatorio senza fine, poi l’archiviazione
perché l’assassino fu introvabile. I carabinieri conclusero
che non era stata una rapina ma un delitto passionale o forse una vendetta
di tipo mafioso.
Mancava solo l’anello con l’acquamarina e i “diamanti”,
e l’arma del delitto.